TZVETAN TODOROV
IL GENOCIDIO DEGLI
INDIANI
Il
secolo XVI, che segue il primo viaggio di Cristoforo Colombo, e la regione dei
Carabi e del Messico sono lo scenario di avvenimenti fra i più sconvolgenti
nella storia degli uomini. In quel secolo, gli europei si imbatterono
nell’”altro”.
La scoperta dell’America, scrive Todorov, “o meglio degli
americani, è l’incontro più straordinario della nostra storia[…] anche se ogni
data con la quale si cerchi di separare due epoche è arbitraria, nessuna è più
adatta a contrassegnare l’inizio dell’era moderna dell’anno 1492, l’anno in cui
Colombo attraversa l’Oceano Atlantico”.
Il
secolo XVI è anche il secolo in cui si compirà il più grande genocidio della storia
dell’umanità: l’eliminazione di intere popolazioni. Todorov, nel passo
antologizzato, ripercorre le fasi salienti della distruzione degli indiani alla
luce delle relazioni coeve e delle ricerche che successivamente sono state
fatte da storici, archeologi, etnologi. Ne emerge un quadro di desolante
tragicità e di incredibile barbarie.
La distruzione degli indiani nel
XVI secolo va esaminata da due diversi punti di vista, quantitativo e
qualitativo. A quell’epoca, in mancanza di statistiche, il problema del numero
degli indiani uccisi poteva essere oggetto di semplici supposizioni, che davano
luogo alle risposte più contraddittorie. Gli antichi autori forniscono delle
cifre, è vero; ma, in genere, quando un Bernal Diaz o un Las Casas dicono
“centomila” o “ un milione”, si può dubitare che abbiano mai avuto la
possibilità di contare, e se quelle cifre significano qualcosa, è qualcosa di
molto impreciso: vogliono dire semplicemente “ molti”. Per questo non sono
stati presi molto sul serio i “milioni” di Las Casas, quando – nella Brevissima
relacion de la destruycion de las Indias - egli cerca di esprimere in una cifra il numero
degli indiani scomparsi. Le cose sono, tuttavia, completamente cambiate da
quando alcuni storici odierni sono riusciti, con metodi ingegnosi, a stimare
con notevole verosimiglianza la popolazione del continente americano alla
vigilia della conquista, per confrontarla a quella che vi si trovava cinquanta
o cento anni più tardi, secondo i censimenti spagnoli. Nessuna seria contestazione
ha potuto essere mossa contro queste cifre, e coloro che ancora oggi continuano
a rifiutarle, lo fanno semplicemente perché, se la cosa fosse vera, sarebbe
molto urtante. Infatti queste cifre danno ragione a Las Casas: non perché le
sue stime siano attendibili, ma perché le cifre da lui indicate sono del
medesimo ordine di grandezza di quelle
oggi stabilite.
Senza entrar troppo nei particolari, e per dare soltanto un’idea globale del fenomeno ( anche se non si ha certo il diritto di arrotondare le cifre, quando si tratta di vite umane), si può ritenere che nel 1500 la popolazione del globo fosse dell’ordine di 400 milioni di abitanti, 80 dei quali residenti in America. Verso la metà del XVI secolo, di questi 80 milioni ne restano 10. Limitando il discorso al Messico, alla vigilia della conquista la popolazione era di circa 25 milioni di abitanti; nel 1600 era ridotta a 1 milione.
Se c’è un caso in cui si può
parlare, senza tema di smentita, di genocidio, è proprio questo. Si tratta di
un record, mi sembra; e non solo in termini relative ( una distruzione
dell’ordine del 90 per cento e più), ma anche in termini assoluti, perché la
popolazione del globo venne diminuita di 70 milioni di esseri umani.
Nessuno dei grandi massacri del XX
secolo, può essere paragonato a questa ecatombe.
E’ facile capire, allora, quanto
siano vani gli sforzi di certi autori i quali cercano di sfatare quella che fu
chiamata la “leggenda nera”, che mette a fuoco la responsabilità della Spagna
in quel genocidio e ne offusca, in tal modo, la reputazione.
Il nero esiste, anche se non c’è
nulla di leggendario. Non che gli spagnoli siano peggiori di altri
colonizzatori; si dà solo il caso che l’America, in quel momento sia occupata
da loro, e che nessun altro colonizzatore abbia avuto occasione, prima o dopo,
di far perire tanta gente in una sola volta. Gli inglesi e i francesi, in
quella stessa epoca, non si comportano diversamente; ma la loro espansione non
avviene alla medesima scala, e i guasti da loro provocati non hanno, quindi, le
medesime proporzioni.
Si potrebbe obiettare che non ha
senso cercare delle responsabilità, o anche parlare di genocidio anziché di
catastrofe naturale. Gli spagnoli non procedettero a uno sterminio diretto di
quei milioni di indiani, né sarebbero stati in grado di farlo. Se si guarda
alle forme assunte dalla diminuzione della popolazione, si costata che esse
furono tre, e che la responsabilità degli spagnoli fu inversamente
proporzionale al numero di vittime attribuite a ciascuna di esse:
1)
Per uccisione diretta,
durante le guerre o al di fuori di esse
(numero elevato, ma relativamente esiguo): responsabilità diretta.
2)
In seguito a
maltrattamento (numero più elevato):
responsabilità (un po’) meno diretta.
3)
Per malattie, per
“choc microbico” ( la maggior parte della
popolazione): responsabilità diffusa e indiretta.
Ritornerò sul primo punto quando
prenderò in esame la distruzione degli indiani sul piano qualitativo; qui
importa verificare in che cosa e come gli spagnoli possono essere ritenuti
corresponsabili della prima e della seconda forma di morte.
Per “maltrattamenti” intendo
soprattutto le condizioni di lavoro imposte dagli spagnoli, in particolare
nelle miniere, ma non solo in esse. I
conquistadores colonizzatori non hanno tempo da perdere, debbono arricchirsi
subito; essi impongono di conseguenza ritmi di lavoro insopportabili, senza
minimamente preoccuparsi di tutelare la salute e la vita dei loro operai. La
speranza di vita media di un minatore dell’epoca è di venticinque anni. Ma
non ci sono solo le miniere; le imposte sono così irragionevoli che producono
il medesimo risultato. I primi colonizzatori non prestano attenzione al
fenomeno, poiché le conquiste si susseguono a una velocità tale che la morte di
un’intera popolazione non desta soverchie preoccupazioni: si può sempre
insediarne un’altra, trasferendola dalle terre di più recente occupazione.
Motolina osserva: “Le imposte di
cui gli indiani venivano gravati erano talmente elevate, che molte città,non
essendo in grado di pagarle, vendevano agli usurai le terre e i figli dei
poveri; ma poiché le esazioni erano assai frequenti e gli indiani non potevano
liberarsene neppure vendendo tutto ciò che avevano, alcune città si spopolarono
completamente e altre perdettero una parte della popolazione”.
Anche la riduzione in schiavitù
provoca, direttamente o indirettamente, cali massicci della popolazione. Il
primo vescovo di Città del Messico, Juan de Zamarraga, così descrive le gesta
di Nino de Guzman, conquistador e tiranno: “Quando cominciò a governare questa
provincia, in essa vivevano 25.000 indiani sottomessi e pacifici. Egli ne ha
venduti 10.000 come schiavi, e gli altri- temendo la tessa sorte- hanno
abbandonato i loro villaggi”.
Oltre a un aumento della
mortalità, le nuove condizioni di vita provocano anche una diminuzione della
natalità:” Non si accostano più alle loro donne, per non generare degli
schiavi”, scrive al re il vescovo Zumarraga. E Las Casas spiega:” In questo modo, marito e moglie non
stavano insieme né si vedevano per otto o dieci mesi, o per un anno intero;
quando alla fine si ritrovavano, erano così stanchi e spossati dalla fame e
dalle fatiche, così sfiniti e indeboliti gli uni e le altre, che poco si
curavano di avere rapporti coniugali. Così cessarono di procreare. I neonati
morivano subito, perché le madri – stanche e affamate- non avevano latte per
alimentarli. Quand’ero a Cuba, 7000 bambini morirono in tre mesi per questa
ragione: Alcune madri affogavano i loro bambini per disperazione; altre,
accorgendosi di essere incinte, abortivano con l’aiuto di certe erbe che fanno
partorire figli nati-morti” (Historia, II,13). Las Casas racconta anche, nella
Historia de las Indias, che la sua conversione alla causa degli indiani fu
prodotta dalla lettura di queste parole dell’Ecclesiaste (34.12) : “ Il pane
del povero è la sua vita: chi lo priva del pane è un assassino”.
In tutti i casi citati si tratta
appunto di un assassinio economico, e i colonizzatori ne portano tutta intera
la responsabilità.
Meno nettamente stanno le cose per
quanto riguarda le malattie.
Le epidemie, a quell’epoca, non
infuriavano solo in America, ma decimavano le stesse città europee, anche se su
scala diversa.
Gli spagnoli non solo non inocularono scientemente questo o quel microbo agli indiani, ma (soprattutto certi religiosi) avrebbero voluto lottare contro le epidemie; non sapevano però farlo in modo efficace.
Oggi tuttavia sappiamo che, a
quell’epoca, la popolazione messicana diminuì anche indipendentemente
dall’esito delle grandi epidemie, per denutrizione, o in conseguenza di
altre malattie correnti o per effetto della distruzione del tradizionale
tessuto sociale. D’altro lato, quelle micidiali epidemie non si possono neppure
considerare come un fatto puramente naturale. Il meticcio Juan Bautista Pomar,
nella sua Relaciòn de Tezcoco, terminata verso il 1582, riflette sulle cause
dello spopolamento. La riduzione della popolazione (che, con valutazione
abbastanza esatta, ritiene sia dell’ordine di dieci a uno) è dovuta certo alle
malattie; ma gli indiani erano particolarmente vulnerabili dalle malattie,
perché erano esauriti dal lavoro e non amavano più la vita. La colpa
era “della stanchezza e della
disperazione del loro spirito, perché avevano perduto la libertà che Dio aveva
loro dato ed erano trattati dagli spagnoli come schiavi o peggio”.
Sia o non sia accettabile questa
spiegazione dal punto di vista medico, una cosa è certa ( ed è molto più
importante ai fini dell’analisi delle rappresentazioni ideologiche che qui sto
tentando) : i conquistadores considerano sicuramente le epidemie come una delle
loro armi. Non conoscono i segreti della guerra batteriologica, ma, se
potessero farlo, non esiterebbero a servirsi scientemente delle malattie; si
può pensare che, in generale, non abbiano fatto nulla per impedire l’estendersi
del contagio.
Il fatto che gli indiani muoiano come mosche è la prova che Dio è dalla parte dei conquistatori. Gli spagnoli presumevano forse un po’ troppo per quanto riguarda questa loro valutazione della benevolenza divina; ma, per loro, si trattava di un fatto incontestabile.
Motolina, membro del primo
gruppo di francescani sbarcati in Messico nel 1523, comincia la sua Historia enumerando le dieci
piaghe inviate da Dio, per punizione, su quella terra; la loro descrizione
occupa il primo capitolo del primo libro. Il riferimento è chiaro: come
l’Egitto biblico, il Messico si è reso colpevole dinanzi al vero Dio e viene
giustamente punito. Vediamo allora succedersi, in questa elencazione, una serie
di eventi la cui integrazione in una successione unica non è priva di
interesse.
“La prima fu la piaga del
vaiolo” portata da un soldato di Narvàez. “Gli indiani non conoscevano
rimedi per questa malattia. E poiché, malati o sani, hanno l’abitudine di fare
il bagno molto di frequente, continuarono a farlo anche dopo aver preso il
vaiolo, per cui morivano in massa come cimici. Molti altri morirono di fame,
perché, essendo tutti malati, non potevano curarsi l’un l’altro e non c’era
nessuno che desse loro del pane o altre cose da mangiare”.
Anche per Motolina, dunque, la
malattia non è l’unica responsabile: lo sono del pari l’ignoranza, la mancanza
di cure, la mancanza di alimenti. Gli spagnoli avrebbero potuto eliminare
materialmente queste altre cause di mortalità, ma nulla era più lontano dalle
loro intenzioni: perché combattere una malattia, se essa è inviata da Dio per
punire gli increduli?
Undici anni dopo, continua
Motolina, cominciò una seconda epidemia ( di morbillo), ma questa volta furono
proibiti i bagni e si ebbe cura dei malati; vi furono dei morti, ma in numero
assai inferiore.
“La seconda piaga fu il gran
numero di coloro che morirono durante la conquista della Nuova Spagna,
soprattutto intorno a Città del Messico”.
In questo modo, chi viene ucciso a
mano armata va a raggiungere le vittime del vaiolo.
“La terza piaga fu una grande carestia che si abbatté sul paese subito dopo la presa di Città del Messico”.
Durante la guerra non si poteva
seminare; e se qualcuno riusciva a farlo, gli spagnoli distruggevano il
raccolto. Anche gli spagnoli stentavano a trovare del mais: ed è tutto dire.
“ La quarta piaga fu quella dei
calpixques o sorveglianti, e dei negri”.
Gli uni e gli altri servivano da
intermediari fra i colonizzatori e il grosso della popolazione; erano contadini
spagnoli o vecchi schiavi africani.
“Poiché non voglio mettere in luce i loro difetti, non dirò quel che penso; dirò soltanto che si fanno servire e temere come se fossero i signori assoluti e naturali: Non fanno altro che chiedere, si ha un bel dare loro tutto: non sono mai contenti. Dovunque si trovino, infettano e corrompono tutto, fetidi come la carne putrefatta.(…) Durante i primi anni, questi sorveglianti maltrattavano gli indiani in modo così assoluto, sovraccaricandoli di lavoro, allontanandoli dalle loro terre e imponendo loro altri gravosi compiti, che molti indiani morirono per causa loro e nelle loro mani”.
“La quinta piaga furono le
imposte elevate e i servizi che gli indiani dovevano prestare”.
Quando gli indiani non avevano più
oro, vendevano i figli; quando non avevano più figli, non potevano offrire che
la propria vita. “ Molti di loro morirono a causa di ciò, alcuni sotto la
tortura, altri in crudeli prigioni, perché gli spagnoli li trattavano
brutalmente e li consideravano al di sotto delle bestie”. Ma era davvero un arricchimento
per gli spagnoli?
“ La sesta piaga furono le
miniere d’oro”.
“Sarebbe impossibile calcolare il numero degli schiavi indiani che, fino ad ora, sono morti in queste miniere”.
“La settima piaga fu la
costruzione della grande Città del Messico”.
“Nel corso dei lavori di
costruzione, alcuni furono schiacciati dalle travi, altri caddero dall’alto
delle impalcature, altri ancora rimasero sepolti sotto gli edifici che venivano
demoliti in un posto per essere ricostruiti in un altro; ciò avvenne soprattutto
quando furono abbattuti i principali templi del diavolo. Molti indiani morirono
sotto di essi”. Come non vedere un intervento divino nelle morte inflitta dalle
pietre del Grande Tempio? Motolina aggiunge che, per questo lavoro, gli indiani
non solo non erano retribuiti, ma pagavano i materiali di tasca propria o
dovevano portarli con sé, mentre, d’altro lato, nessuno dava loro da mangiare.
E poiché non potevano nello stesso tempo distruggere i templi e lavorare i
campi, andavano al lavoro affamati (di qui, forse, un certo aumento degli
“incidenti sul lavoro”).
“L’ottava piaga furono gli
schiavi gettati nelle miniere”.
Prima furono presi quelli che erano già schiavi degli Aztechi; poi quelli che si erano resi colpevoli di insubordinazione; infine, tutti coloro su cui fu possibile mettere le mani. Nei primi anni dopo la conquista, il commercio degli schiavi è fiorente e gli schiavi cambiano spesso padrone:”venivano impressi sui loro volti tanti segni, i quali andavano ad aggiungersi alle stigmate regie, che la loro faccia era tutta scritta, perché portava il marchio di tutti coloro che li avevano comprati e venduti”. Vasco de Quiroga, in una lettera al Consiglio delle Indie, ha fornito anche lui una descrizione di quei volti trasformati in libri illeggibili, come i corpi dei suppliziati nella Colonia penale di Kafka:” Vengono marcati a fuoco in viso e vengono loro impresse nelle carni le iniziali dei nomi di coloro che via via diventavano loro proprietari; passano così di mano in mano, e alcuni hanno anche tre o quattro nomi, di guisa che il volto di quegli uomini che furono creati ad immagine di Dio è trasformato, per i nostri peccati, in carta”.
“La nona piaga fu il servizio
di approvvigionamento delle miniere, per
il quale gli indiani, stracarichi di pesi, percorrevano distanze di sessanta
miglia e più. Il cibo che portavano per nutrirsene essi stessi era talvolta
finito prima che arrivassero alle miniere, e altre volte finiva sulla strada
del ritorno, prima che giungessero a casa. Talvolta i minatori li trattenevano
per alcuni giorni, per farsi aiutare ad estrarre il minerale o per costruire le
proprie case o per farsi servire; e quando quegli indiani non avevano più cibo,
morivano nelle miniere o per la strada, perché non avevano denaro per comprarsi
da mangiare e nessuno gliene dava. Alcuni rientravano a casa in condizioni tali
che, di l^ a poco, morivano. I corpi di questi indiani e degli schiavi morti
nelle miniere produssero tali fetide esalazioni che ne nacque una pestilenza,
soprattutto nelle miniere di Guaxaca. Fino a mezza lega di distanza
tutt’intorno, e lungo una gran parte della strada, non si faceva altro che
camminare sui cadaveri o su mucchi di ossa, e gli stormi di uccelli e di corvi
che venivano a divorarli erano così numerosi da oscurare il sole. In questo
modo, molti villaggi si spopolarono, lungo la strada e nei dintorni”.
“ La decima piaga furono le
fazioni che dividevano gli spagnoli in Messico”.
Ci si può domandare quale danno
ciò potesse arrecare agli indiani. E’ semplice: vedendo gli spagnoli discutere,
gli indiani pensano di poterne approfittare per sbarazzarsi di loro. Che la
cosa sia vera o no, gli spagnoli vi trovano un buon pretesto per giustiziare
moltissimi altri indiani, fra cui Cuauhtemoc, loro prigioniero”.
[T.Todorov, La conquista dell’America Einaudi Torino, 1984, pp.161-168]