LE CULTURE ALTRE

 

 

 

 

 

 

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              Rendersi conto della validità relativa delle

                           proprie convinzioni, eppure difenderle sen-

                           za indietreggiare, è ciò che distingue un

                           uomo civile da un barbaro

 

                                                                         Joseph Schumpeter

 

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                          La conoscenza di noi stessi passa attraverso

                             quella dell’altro

 

                                                                          Tzvetan Todorov

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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 CHE COS’E’

L’ETNOCENTRISMO 

Non é raro il caso in cui è possibile vedere che interi popoli, per periodi spesso lunghi della loro storia, tendono a riferire in modo unilaterale a se stessi tutta la realtà, a ritenersi al centro della storia, a credere i propri valori,(religiosi, etici, estetici, ecc.) gli unici giusti; essi tendono in sostanza a ritenersi superiori agli altri. Questo atteggiamento si chiama etnocentrismo. E trova, per esempio, eloquenti testimonianze in miti, denominazioni etniche e nomi geografici.

 

Se si studiano infatti i miti antropogonici ( di creazione dell’uomo) di popoli “primitivi”, si nota che il dio che li ha creati ha assegnato loro un posto di preminenza sulla terra. Così , ad esempio, i Masai credono che il dio da cui discendono e da cui hanno appreso la capacità di allevare il bestiame li abbia resi padroni di tutti i bovini, gli asini, le pecore, le capre del mondo; perciò quando essi prendono un capo di bestiame al vicino, non pensano affatto di compiere un furto, quanto piuttosto di esercitare un loro diritto.

 

Se poi si studiano i nomi dei popoli, si scopre che le autodenominazioni indicano forte stima di sé: il termine con cui i popoli chiamano se stessi significa spesso uomini; anche popoli più vicini a noi  per cultura o area geografica, come gli etruschi nel mondo antico e gli zingari oggi, designano se stessi con il nome di uomini: rispettivamente rasenna  e rom.

La acritica presunzione della propria superiorità implica una disistima degli altri, esplicita o no: se ci si definisce uomini, s’intende che tutti gli altri tali non sono.

A questo atteggiamento non sono estranei neppure popoli che noi consideriamo molto avanzati nel campo della riflessione critica, come quello greco. I greci, infatti, chiamavano gli altri popoli barbari, parola onomatopeica che significa “balbuzienti”: il non parlare greco equivaleva, per un greco, a non saper parlare affatto.

 

Analogamente le denominazioni geografiche recano la medesima impronta: termini come Esperia ( che significa “terra della sera” = occidente), nome con cui i greci designavano l’Italia, o altri da noi usati come Medio Oriente, Estremo Oriente, hanno un senso solo se si assume la propria posizione come centrale; se il punto di vista cambia, le designazioni non rispondono più alla realtà come era vista prima; anzi, i termini potrebbero addirittura invertirsi; la riprova è data dal fatto che un giapponese non accetterebbe mai di chiamare il suo Paese Estremo Oriente.

 

Un simile modo di rapportarsi agli altri  è la prima e più spontanea forma di etnocentrismo; atteggiamento questo così diffuso tra i gruppi umani che gli studiosi di discipline come l’antropologia o la sociologia lo ritengono biologicamente fondato, cioè pensano che sia funzionale alla sopravvivenza: la difesa dal diverso, che può anche essere un nemico, serve a mantenere intatta l’identità culturale del gruppo preservandolo da minacce esterne.

Qui, però, sorge una questione: se quello che ci viene dalla natura non ci appare di solito condannabile, allora perché mai l’etnocentrismo costituisce un problema?

Ebbene, esso costituisce un problema per la ragione che da questo atteggiamento spontaneo, di per sé non negativo, si può sviluppare un fenomeno che consideriamo molto negativo per gli esiti che ha prodotto nella storia: il razzismo.

Quando la xenofobia (etimologicamente: la “paura dello straniero”) si trasforma in ideologia – cioè nella elaborazione cosciente di teorie che stabiliscono gerarchie tra gruppi umani, le razze – e quando l’enunciazione di dottrine che predicano la violenza si traduce in atti concreti di persecuzione nei confronti di quelli creduti inferiori, allora siamo di fronte al razzismo.

 

              2

L’EUROCENTRISMO

 

 

 

A noi interessa questa evoluzione all’interno della cultura occidentale. La nostra forma di etnocentrismo si chiama eurocentrismo.

E l’eurocentrismo è la credenza che la civiltà europea – con tutte le sue acquisizioni “ umanistiche”, “scientifiche”, e “tecnologiche”- sia una civiltà superiore a tutte le altre. Tale presunzione di superiorità è da annoverarsi tra le principali cause di quel fenomeno storico che è il colonialismo.

Questa idea, connessa alla superiorità tecnologica, specie in campo bellico, ha consentito agli europei un’ampia penetrazione negli altri continenti.

Nel Cinquecento si verifica l’imponente fenomeno della Conquista, che assicura a due nazioni europee, Spagna e Portogallo, il possesso di gran parte dell’America.

Nei secoli successivi l’espansione si accentua e, nel corso dell’Ottocento, le grandi potenze europee, con in testa l’Inghilterra, si spartiscono l’Africa e gran parte dell’Asia. L’Italia giunge per ultima nell’avventura coloniale, e non è da meno delle altre nazioni colonizzatrici nell’adozione di mezzi cruenti di conquista e di repressione.

L’espansione coloniale non fu indolore per i popoli che la subirono: Antiche civiltà come quelle dei Maya e degli Aztechi nel Centro America furono annientate; culture originali come quelle dei Pellirossa furono cancellate dalla penetrazione dei coloni inglesi nell’America del Nord; milioni di neri, sembra non meno di trenta, furono fatti schiavi, deportati dal continente africano e sfruttati come mano d’opera nelle piantagioni del Nuovo Mondo.

I conquistatori non furono certo torturati dal dubbio che il diritto di conquistare terre che appartenevano già ad altri, di assoggettarne i proprietari, di sterminarli, all’occorrenza in forme brutali (genocidio) o di privarli della loro cultura (etnocidio), fosse del tutto infondato. Eppure, uno di questi popoli si proclamava tra i più cristiani d’Europa ( il re di Spagna era “ il cristianissimo re di Spagna”). Sarebbe bastato guardare al principio ispiratore del Cristianesimo, che è l’amore del prossimo, per capire; ma i conquistadores strumentalizzarono il Cristianesimo con l’alibi dell’evangelizzazione che, mescolandosi a concretissimi interessi economici, diede origine a quell’impasto di barbarie che fu la Conquista: missionari, esploratori e mercanti finirono, sostanzialmente, per trovarsi dalla parte degli eserciti di conquista.

 

Nessuno dei colonizzatori dell’Ottocento, tra cui si annovera una nazione come l’Inghilterra, che praticava in casa le forme più avanzate di democrazia, dubitò della sua missione civilizzatrice.

Le nazioni europee si erano insomma autoconvinte del fatto che andavano a fare del bene, a portare la civiltà ai popoli che di fatto, invece, si accingevano a opprimere.

L’idea della inferiorità altrui e della missione civilizzatrice servirono oggettivamente da alibi necessari a motivare azioni che altrimenti sarebbero apparse ripugnanti.

Certo, è difficile prendere le distanze dal processo storico nel quale si è coinvolti e nel quale si opera; tuttavia qualche voce di dissenso si levò già al tempo della Conquista: il domenicano Bartolomé de Las Casas nella Brevissima relazione della distruzione delle Indie fece una cronaca agghiacciante delle atrocità compiute dai conquistatori. E successivamente ,nel periodo illuministico, si registrarono prese di posizione nette e denunce appassionate contro la schiavitù. E’ dovuto passare, tuttavia, molto tempo perché l’Europa prendesse coscienza del danno arrecato agli altri popoli; si è trattato di un processo doloroso, faticoso, lento, che forse in alcuni casi non si è ancora del tutto compiuto.

 

 

 

               3

 

IL CONTRIBUTO

DELLE SCIENZE

     UMANE

 

 

 

E’ grazie alla nascita delle scienze cosiddette umane, cioè di discipline che hanno come oggetto elettivo d’indagine l’uomo, quali l’etnologia, l’antropologia e la sociologia, che l’Occidente elabora un diverso concetto di cultura e di primitivo.

Il concetto di cultura, così come emerge dall’odierna antropologia culturale, ha addirittura una data di nascita, e cioè il 1871, anno in cui E.B. Taylor definì così la cultura:

“ La cultura o civiltà intesa nel suo ampio senso etnografico è quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società”.

Se cultura è quanto un gruppo umano ha saputo elaborare nel corso della sua storia, è chiaro che ogni popolo è fornito di cultura ed è altrettanto chiaro che, in assoluto, non ci sono culture superiori e culture inferiori. E, di conseguenza, il primitivo non è un essere inferiore, bensì un diverso.

E’ così che si approda al relativismo culturale, concezione che è il contrario esatto dell’etnocentrismo: mentre quello affermava una gerarchia di civiltà e di valori, questo dichiara la pari dignità di tutte le culture. I valori diventano in tal modo relativi al gruppo che li adotta, non valgono per tutti e in maniera assoluta; nessuno può imporre i propri e calpestare quelli altrui. Anzi, per l’antropologo la perdita delle diversità sarebbe un depauperamento dell’umanità nel suo insieme: le culture rappresentano risposte diverse agli stessi problemi e la loro varietà indica la ricchezza di possibilità che c’è nell’uomo.

 

 

 

 

 

 

     

 

 

 

 

 

      4

 

IL RELATIVISMO

  CULTURALE

E I PROBLEMI CHE

ESSO COMPORTA

 

 

Il relativismo culturale è indubbiamente une consapevolezza importante che ha prodotto effetti benefici: spirito di tolleranza nei riguardi delle altre culture e interventi di protezione nei confronti di culture minacciate da estinzione.

Tuttavia anche questa fondamentale acquisizione trascina con sé problemi non indifferenti, nel senso che, per esempio, al precedente atteggiamento di superiorità alcuni hanno sostituito un atteggiamento di autoflagellazione, spiegabile forse con il senso di colpa: sono superiori gli altri; più primitivi sono e meglio é. E’ questo il mito del buon selvaggio, tentazione spesso ricorrente, che serpeggia nella cultura europea fin dal Settecento.

In atteggiamenti del genere non ci sarebbe niente di censurabile- proprio se si adotta un’ottica di tolleranza-, qualora non si intravedesse in queste impossibili fughe nel passato il pericolo dello smarrimento di quelli che per noi occidentali sono valori che strutturano la nostra identità culturale. E tra questi valori annoveriamo la scienza, con le relative tecniche, e la democrazia con il suo spirito di tolleranza e di apertura agli altri.

Se questi valori non vengono riconosciuti e difesi in quanto tali, noi rischiamo di perderli.

Come ha scritto l’antropologo Vittorio Lanternari, “non è uscendo dalla propria storia che si costruisce alcunché di valido per sé individualmente e per la società cui uno appartiene: ma solo standovi dentro ben impiantato”.

Tutto questo va affermato con forza, indipendentemente dai debiti culturali che anche l’Europa ha contratto nei confronti delle altre civiltà. E quel che davvero conta non consiste nel discettare se vi siano culture inferiori o superiori; quel che non si può in alcun modo trascurare è capire, stabilire e difendere l’idea in virtù della quale nessuno può arrogarsi il diritto di imporre la propria cultura agli altri.

E le cose vanno oltre, giacché il relativismo pone problemi anche dalla prospettiva delle culture “altre”: messe tutte sullo stesso piano in maniera asettica possono diventarci estranee. Prima l’Europa si era violentemente intromessa, ma dopo lo scontro si è verificata una sorta di indifferenza. Sotto l’apparente rispetto può nascondersi disinteresse; sotto la protezione, la ghettizzazione. Ci sono in alcuni paesi del Terzo Mondo riti come la sati, l’infibulazione, la lapidazione di cui sono spesso vittime le donne. Si tratta di fatti che pongono, di tanto in tanto sotto gli occhi dell’opinione pubblica mondiale casi impressionanti e che, pur con tutto il rispetto che caratterizza l’etica della tolleranza dell’uomo che ha fatto proprio il relativismo culturale, non possono lasciare tranquillo nessuno.

A proposito di tali tematiche, c’è da dire che sulla stampa occidentale si sono avuti ampi e insistenti dibattiti. E a taluno è parso che il rispetto per le culture “altre”, insegnato dal relativismo, nascondesse l’indifferenza: se vogliono lapidare l’adultera, se vogliono bruciare la vedova indù su di una pira, lo facciano pure, se lo fanno a casa loro.

Ora, però, siamo a una svolta: l’Europa, che sta vivendo l’esperienza di una massiccia ondata di immigrazione dai paesi del Terzo Mondo, non può sentirsi immune da questi problemi e non può più cullarsi nella sua indifferenza. L’idea che una società multietnica e multirazziale sia un valore, secondo quanto pensano oggi gli antropologi, non è da tutti affermata; non di rado si mettono in moto i meccanismi di difesa di sempre: il rifiuto del diverso e l’intolleranza.

Ed è così che si accendono nuove forme di razzismo; talvolta si riaccendono anche quelle vecchie come l’antisemitismo.

Anche a livello di elaborazione teorica, nella fattispecie giuridica, emergono difficoltà non indifferenti. Gli extracomunitari che vengono da noi in cerca di lavoro, sono portatori di stili di vita, credenze e abitudini talvolta radicalmente diversi dai nostri: si pensi alla cultura islamica, spesso caratterizzata da forme di integralismo religioso che l’Europa, in linea generale, si è ormai buttata alle spalle da almeno due secoli.

E, più concretamente, alcuni riti e consuetudini, come la sati e la poligamia, che praticati altrove potevano porci problemi di coscienza, quando sono praticati in casa nostra ci pongono anche problemi giuridici.

 

 

 

 

 

                    5

 

L’ETNOCENTRISMO

        CRITICO

 

 

Dinanzi a questi e ad altri problemi, il relativismo culturale, nella sua forma più semplificata, non sembra talvolta fornire risposte adeguate. Per questo è stato elaborato un nuovo concetto di etnocentrismo: l’etnocentrismo critico, una proposta già avanzata anni addietro da Ernesto De Martino, il più noto antropologo italiano.

De Martino mise bene in luce il fatto che quando si guarda e si giudica un’altra cultura, non si può non guardarla e non giudicarla se non dall’interno di una cultura, di una tradizione. De Martino, insomma, dimostrava scarsa simpatia per quella antropologia che si presentava come “ un frivolo défilé di modelli culturali sospinti sulla passerella della scienza da un frigido apolide in funzione di antropologo infinitamente disponibile verso i possibili gusti culturali”.

La soluzione, in breve, non sta nella tolleranza che degenera in un’indifferenza, quanto piuttosto nel dialogo, nell’interazione critica.

Per cui, stabilita una scala di valori unitaria, almeno su principi di fondo della convivenza, si deve instaurare una specie di Koinè culturale che tenga conto dei nuovi rapporti che si vanno stabilendo tra culture differenti.

Non si deve temere né il confronto né la critica; come noi diamo  giudizi sulle altre culture, le altre possono criticare la nostra, in un progetto di integrazione in cui ognuno porti la propria cultura insieme alla capacità di mettersi in discussione, un compito quest’ultimo che l’Europa, in alcuni dei suoi spiriti più elevati e più aperti, ha saputo esercitare per prima.

E’ certo che le costituzioni democratiche che ci siamo dati, il diritto internazionale, il carattere umanitario degli ideali cristiani a cui facciamo riferimento ci impongono l’accoglienza di chi  ci chiede aiuto e, nel richiamarci al rispetto di questi diritti, ci ritiene capaci di essere coerenti con i principi in cui affermiamo di credere.